mercoledì 27 febbraio 2008

INTERVENO DI GIUSEPPE VOZZA


Carissimi convegnisti,
ho l’onore di essere il Presidente nazionale di questa nuova associazione culturale costituita il 28 dicembre 2007. Ad affiancarmi vi sono due vice-presidenti Pietro Matrisciano e Pasquale Pollio, il segretario Fiore Marro ed il tesoriere Nicola D’auria.

Abbiamo ritenuto opportuno incontrarci per iniziare ad elaborare tutti quanti insieme le linee-guida della nostra associazione, in modo tale che, quando il processo di definizione si riterrà concluso, verrà indetto il congresso nazionale per il rinnovo di tutti gli organismi.

Innanzitutto mi preme sottolineare che è stato scelto il nome “Comitati delle Due Sicilie” per due ordini di ragioni.

Il primo è di ordine geografico, volendo comprendere tutta la vasta area, o macroregione, che al nord ha per confini naturali da un lato il fiume Tronto, sul versante adriatico, e dall’altro il fiume Liri-Garigliano, sul versante tirrenico, ed al sud ha per confini da un lato il capo di Santa Maria di Leuca e dall’altro San Vito Lo Capo, non disdegnando di ricordare che Capo Passero è naturalmente il capo più a sud.

Il secondo punto è di ordine storico-culturale. Abbiamo ritenuto necessario fare uso dell’aggettivo duosiciliano, perché vogliamo e dobbiamo comprendere tutto il lungo periodo che, grosso modo, va dal 1100 al 1861, in cui, cioè, è compreso il periodo borbonico, ma questo non è che una parte rispetto al tutto, non è che il 15% circa, sempre in ragione temporale, rispetto ai 7-800 anni di vita unitaria che ha conosciuto l’area geografica di cui sopra. In altre parole, sappiamo benissimo che il Meridione ha brillato durante il periodo borbonico, ma sappiamo anche che la storia del Meridione non può essere limitata ai 126-127 anni caratterizzati dalla dinastia dei Borbone, cioè dall’anno in cui è arrivato Carlo di Borbone fino agli ultimi giorni dell’amatissimo ultimo Re Franceschiello, ma che deve travalicare questi confini, per andare ai primi anni del periodo medioevale, laddove si incominciava a parlare di stato unitario ed a viverlo quotidianamente, si pensi solo che nel 1100 il Meridione d’Italia ha brillato di luce propria perché in quel periodo viveva un Re che rispondeva al nome di Federico di Svevia, il quale nella sua Reggia di Palermo era riuscito, tra le altre cose, a far sedere allo stesso tavolo cristiani, musulmani ed ebrei, al punto che con estrema facilità in ogni angolo del Regno si parlava latino, arabo ed ebraico, con una grandissima ed insuperata lezione di pluralismo culturale. Non a caso Federico è stato definito lo stupor mundi.

Va, inoltre, ricordato come anche i linguisti abbiano evidenziato l’unitarietà culturale della macroregione duosiciliana, laddove, ad esempio Giacomo Devoto, il più importante linguista, ha evidenziato, ad esempio, che nella nostra area siamo abituati ad usare la parola “mo”, mentre nel territorio della penisola che sta al di sopra di Roma e delle Marche si preferisce usare la parola “ora”.

Tutto ciò significa che nel Meridione per oltre 700 anni vi è stato l’organismo unitario dello “stato”, entità politico-costituzionale che vedrà la luce negli altri stati europei solo qualche secolo dopo, vale a dire la Spagna , la Francia , la Germania e l’Inghilterra si formeranno in stato solo nel 1500. E pensare che la storiografia italiana ha sempre evidenziato in negativo tutti gli staterelli italiani e mai che abbia speso parole positive, o, almeno, avesse evinziato in qualche sparutissima occasione l’esistenza dello stato unitario del Mezzogiorno già nel XII secolo. In altre parole vogliamo dire che l’unità d’Italia si sarebbe dovuta realizzare dal sud verso il nord, non solo sotto il profilo geografico, ma proprio ed esclusivamente sotto il profilo culturale, giuridico e politico. E di sicuro molti secoli addietro.

Tutto ciò allora ci deve servire da monito, perché se è vero come è realmente vero che historia magistra vitae, come ci suggerisce Cicerone, è altrettanto vero, che noi non dobbiamo tenere il capo reclinato esclusivamente all’indietro e senza porci domande e quesiti sul presente e senza dare qualche risposta e prospettiva al nostro futuro. Noi siamo uomini del Terzo Millennio, dobbiamo tenere nella debita considerazione ciò che siamo stati fino al 1860-61, da quando cioè siamo stati violentati, seviziati, squartati, bruciati, impiccati, ma è altrettanto vero che dobbiamo dare delle risposte ai tanti perché che sorgono dal territorio e che riguardano la munnezza, la nuova emigrazione, l’assalto al territorio, la cancellazione dell’agricoltura, il proliferare di supermercati, la cancellazione delle piccole e medie imprese e dobbiamo soprattutto pensare a quale futuro dobbiamo e vogliamo lasciare ai nostri figli ed ai nostri nipoti, perché se tutto ciò è vero è altrettanto ed ancor di più vero che noi abbiamo nostalgia del futuro.

Una vera associazione culturale e/o politica non può non tenere presente nella propria analisi e nella propria prospettiva risolutoria non solo il popolo ma anche e soprattutto il territorio. Allora se noi oggi vediamo che il nostro territorio, soprattutto quello della Campania, ma se non si pongono immediati rimedi il problema rischia di estendersi anche alle regioni viciniori, è caratterizzato dall’unica forma di arredo urbano che una sedicente classe politica è riuscita a conferire a tutte le città ed i paesi, vale a dire la munnezza, dobbiamo anche chiederci perché ciò è avvenuto. A mio sommesso avviso deve essere evidenziato che noi uomini del Sud per troppi anni, per decenni abbiamo firmato delle cambiali in bianco agli occupatori della politica, la cui unica occupazione è stata quella di scrivervi sopra una cifra iperbolica. Allora questo sta a significare che la munnezza che vediamo è anche e soprattutto la munnezza che teniamo nel nostro corpo, nel nostro cuore e nella nostra mente. Non dobbiamo più firmare cambiali e/o deleghe in bianco, dobbiamo assumerci tutte le responsabilità, in modo che riusciamo a limitare il saccheggio, recuperare ed iniziare un percorso di crescita.

La munnezza è l’aspetto più democratico di tutta la questione dell’attacco al territorio ed al paesaggio. Negli ultimi 30-40 anni abbiamo perso in termini di ambiente ciò che i nostri padri ed i nostri progenitori hanno conservato per secoli e secoli. E l’ultimo colpo di coda è stato l’evento naturale del terremoto dell’Ottanta, perché all’evento imprevedibile della natura, ha fatto seguito l’evento prevedibile della classe borghese, che, come una sanguisuga, si è buttata sul terremoto, ben capendo che avrebbe potuto trarre ingenti guadagni accumulando fortune su fortune.

Il nostro territorio è stato devastato facendo balenare agli occhi dei meridionali negli anni Sessanta la piena occupazione nelle fabbriche, quando nei nostri paesi si sono insediate fabbriche del nord, europee o addirittura americane, tutte rigidamente sovvenzionate dallo stato unitario. La scelta di questo stato serviva solo a buttare fumo negli occhi: a fronte di poche centinaia di famiglie per area provinciale, che potevano permettersi il lusso di avere uno stipendio o un salario di gran lunga superiore a quello che conseguiva il contadino, facevano da contraltare migliaia e migliaia di famiglie che continuavano a vivere in ristrettezze economiche, o addirittura nell’indigenza, al punto che dovettero prendere la valigia ed espatriare, andando nelle città del nord, o in Svizzera, Germania ed altri paesi europei. Lo stato unitario, in altre parole, da un lato saccheggiava il territorio devastandolo irreversibilmente e dall’altro saccheggiava il popolo duosiciliano costringendolo ad espatriare, sulla scorta del grande insegnamento dello stato savoiardo post-unitario, che pensò come unica soluzione all’emigrazione d’oltreoceano per le genti del Sud.

All’emigrazione delle braccia, che servirono a fare grande l’industria automobilistica di Torino e tutte le fabbriche del cosiddetto triangolo industriale nordista, fece seguito il decennio successivo l’emigrazione dei primi colletti bianchi: il Sud continuava a dissanguarsi, fino ad arrivare ai giorni nostri che sono contrassegnati irrimediabilmente dall’abbandono dei nostri cervelli che possono trovare occupazione solo altrove, dove l’ “altrove” sta sempre e solo oltre i confini naturali del Tronto e del Garigliano. Ed in queste condizioni il futuro è un tempo che non può essere coniugato dagli studenti e dal popolo del Mezzogiorno.

Il paesaggio è stato violentato perché immettendo le cosiddette “cattedrali nel deserto”, si è data la stura a quanto di più becero e regressivo esistesse nella nostra indole, perché di punto in bianco, dimentichi della nostra storia, della nostra cultura, delle nostre arti, delle nostre tradizioni, siamo stati bravissimi (ovviamente per gli altri) cancellare il nostro territorio, in una sorta di preferenza psicologica nell’immissione di palazzi con vetri, centri commerciali, palazzetti fintamente contenenti attività industriali, industriali, addirittura per le residenze private è invalsa la moda di quelle ville holliwoodiane che sono preferite da chi è dedito ad attività delinquenziali di stampo camorristico. Tutto ciò lo possiamo riassumere con quella parte della Campania che si sviluppa da Marcianise a Nola, dove abbiamo un grande supermercato, l’uscita dell’autostrada, un centro commerciale con oltre 160 negozi, poi l’interporto Marcianise-Maddaloni, poi la Montefibre di Acerra, dove ha già trovato spazio il cosiddetto termovalorizzatore (ma, pare, con una tecnologia superata), poi il CIS di Nola, a cui nei giorni scorsi si è aggiunto un altro centro commerciale, forte sempre di oltre 160 negozi, il cosiddetto “Vulcano buono” e l’interporto (ancora!) di Nola. Insomma un vasto segmento lungo circa 15 km che è stato contrassegnato e penalizzato per sempre da insediamenti invasivi.

Ma tutto questo perché? Perché l’uomo meridionale interessa solo nella misura in cui è consumatore, perché in questa sua funzione nulla gli rimane in tasca e tutto spende a favore delle aziende del nord, dell’Europa e d’Oltreoceano, le quali così aumenteranno i loro ricavi ed il Mezzogiorno si depurerà sempre più. Dopo tutto il più delle volte si tratta di società che sono ultra-nazionali, trans-nazionali, il cui unico scopo è solo quello di arricchirsi (come se la vita non fosse finita!!!), in una continua corsa a crescere e a far crescere il proprio segmento di mercato, che in tanto è amato e nominato perché lo si vive in una prospettiva di occuparlo per intero, perché la visione non è quella della concorrenza, ma del…monopolio, l’unico sistema di mercato che piace a qualsiasi capitalista.

Ed in queste condizioni che futuro hanno le nostre giovani generazioni? Potranno mai lavorare qui, nelle nostre terre? E in che modo vivranno “altrove”, se “altrove” hanno bisogno della cucina, della lavanderia, del petrolio per la trazione e per il riscaldamento? Potranno mai risollevare il capo? E Seppure lo faranno, in quanti lo faranno? Allora qual è il futuro che ci viene riservato, se non quello di prossimi servi della gleba?

Allora se tutto ciò è vero, noi abbiamo il diritto-dovere di non credere più nel cosiddetto modello di sviluppo economico, né di parteggiare per esso, perché il modello di sviluppo economico, così come è stato concepito e come ci viene propinato e fatto vivere, è quanto di più inumano possa esservi. Una considerazione basilare serve a far capire l’insussistenza logica di questo modello: le risorse naturali non sono infinite, ci dimentichiamo della legge di Lavoisier, per cui “in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. Ci pensate che tra poco anche l’acqua, scomposta per particelle, ci sarà venduta a caro prezzo?

Allora, se veramente vogliamo ri-prenderci il futuro, o per lo meno se lo vogliamo ri-prendere per i nostri figli, dobbiamo ri-pensare ad un nuovo e diverso modello di sviluppo, che tenga conto non della crescita ma della de-crescita, come alcuni pensatori, sociologi ed economisti, come Mauss, Latouche, Caillé, da qualche anno stanno predicando, perché è solo con un nuovo e diverso modello di sviluppo che possiamo ri-proporre le nostre piccole e medie attività industriali ed artigianali ed il commercio potrà ri-proporre cose nostre e non cose di altri e di “altrove”.

Ecco, noi teniamo un’arma micidiale: essere consumatori consapevoli. Ciò significa scegliere il prodotto, scegliere il prodotto del Sud e non quello di “altrove”.

A questo punto è necessario procedere anche ad una scelta del sistema politico-economico che meglio potrebbe e/o dovrebbe rappresentare le esigenze del popolo meridionale. Finora da un lato ci è stato propinato il marxismo con la sua applicazione del comunismo e dall’altro il liberismo con la sua applicazione del capitalismo. Le prove che teniamo, forniteci dagli stessi sistemi in parola, depongono a loro sfavore, perché l’uno e l’altro vedono la società in continuo conflitto, privilegiandone sempre una sola parte. Noi, invece, desideriamo andare oltre questa rigida e monca visione, tra l’altro relegata ad un mondo storico che è oramai superato, noi desideriamo andare oltre, perché qualsiasi prodotto non è solo opera di Tizio o di Caio, ma è opera tanto del lavoratore quanto del datore di lavoro; anzi, noi fermamente crediamo che sia venuto il momento di iniziare a parlare di partecipazione del lavoratore alle scelte gestionali dell’azienda e, ovviamente, anche e soprattutto alla partecipazione degli utili aziendali, che, in tanto esistono, perché il lavoratore, al pari del datore di lavoro, vive la sua esperienza lavorativa in funzione del buon andamento della propria struttura produttiva.

Ma per fare tutto questo abbiamo bisogno di una forte preparazione culturale, perché le guerre, soprattutto quelle che non si combattono fisicamente con le armi, per vincerle, devono essere preparate culturalmente. Noi abbiamo il diritto-dovere di educarci, di far sì che in ogni momento della nostra giornata ci sentiamo sempre di fronte ad un bivio ed al bivio scegliere sempre e solo la strada a favore del territorio duosiciliano e del popolo duosiciliano.

Noi dobbiamo affrontare qualsiasi argomento con la piena e lucida capacità intellettuale di individuare subito i pro ed i contro, ecco perché la cultura è condizione necessaria e sufficiente per fare attività, qualsiasi attività, soprattutto quella politica, per la quale non è necessario e sufficiente dire “io faccio politica”, strutturarsi in un partito, o vestire i panni del consigliere comunale o anche del deputato. In altre parole per fare politica occorre, gramscianamente, occupare culturalmente la società, altrimenti si corre il rischio di seguire pedissequamente tutti quelli che finora hanno rivestito incarichi istituzionali, ma dei quali non ce ne siamo mai accorti in termini positivi, ma solo per le ricadute negative e negativizzanti. Per fare politica occorre avere una fortissima preparazione culturale, perché è la politica a discendere dalla cultura e non viceversa, in modo tale che chiunque vada a ricoprire una qualsiasi carica sappia esattamente da dove si è partiti e dove si vuole arrivare. E soprattutto fare politica non significa vincere numericamente chi sta dall’altra parte, ma con-vincerlo con la qualità degli argomenti.

Giuseppe Vozza
Presidente nazionale

Nessun commento: